Arigna 1888 - Val d'Arigna

Val d'Arigna
...tradizione, storia e magia di uno splendido territorio selvaggio
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Arigna 1888

Storia e cultura

PAESAGGI E VILLAGGI VALTELLINESI
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ARIGNA


La valle d'Arigna e l'omonimo villaggio hanno un aspetto proprio, una filosofia tutta speciale; hanno qualche cosa in sé di così strano, quasi di anormale ed inverosimile, che, per quanto mi frughi entro la memoria, non trovo a quale paragonarli delle molte valli, dei tanti villaggi che ho visti; né mi riesce di fermarne sulla carta l'impronta, per rappresentarli esattamente agli occhi della mente del lettore, che mai li abbia visti, o che mai li abbia attentamente guardati e studiati.
All'orecchio di chi si trovi nel villaggio d'Arigna giunge il rumorio monotono, uguale sempre, simile al frastuono di voci preganti in coro, d'un piccolo corso d'acqua, l'Armisa, che scende dalle montagne che appartengono all'importante gruppo del Rodes, e più precisamente è formato da due torrentelli che scendono dalle valli di S. Stefano e del Forno.
La valletta di S. Stefano è molto visitata nell'estate, contenendo nel suo seno tre graziosi laghetti, notissimi sotto il nome di laghi di S. Stefano, i quali però in questo anno in luogo di tre erano due, avendo la neve soppresso completamente il più piccolo, che, per la sua situazione è chiamato della sommità.
Nel giorno di S. Stefano d'ogni anno sfila per la vallata una lunga quanto pittoresca, ma altrettanto ridicola processione, che si compone dei confratelli dei Comuni e dei villaggi vicini, i quali confratelli, nei loro costumi bizzarri ed a vivissimi colori, giunti nella Chiesuola sul lago inferiore, si danno ad una matta allegria, che deriva dall'amena passeggiata, dal luogo delizioso, e da abbondanti libagioni.
Ad un certo punto, a poco meno di mille metri sopra il livello del mare, la vallata in fondo a cui scorre l'Armisa, ha una breve sosta, declina meno ripida. Quivi, la montagna, brulla brulla, che s'erge alla sinistra di chi discende, s'accosta, quasi a baciarla, a quella di destra, che è popolatissima di giganteschi castagni.
Sotto questa selva bella e romantica, che risona perennemente al venticello che quivi spira, dorme il villaggio d'Arigna.
Esso è una frazione del non vicino Comune di Ponte, e conta quasi 700 abitanti.

Non è Arigna, come moltissimi villaggi di montagna, visitato da curiosi e da touristes, o scelto a soggiorno nella stagione estiva. In esso non và, ne si ferma anima viva: se togli qualche cacciatore stanco, o qualche prete per le poche sagre che si celebrano.
Sembra un antro misterioso, in cui abbiate a vedere sbucare le fate e gli stregoni, che nella prima età esaltano ed impressionano tanto vivamente la nostra piccola fantasia.
E come pare del tutto segregato dal consorzio umano, così il villaggio d'Arigna mai è vivificato dal sole nella stagione invernale, nella state ne è rallegrato per poche ore, attraverso le folte chiome dei castagni.
Da qualunque punto esso si volga l'occhio, avido di stendersi e di spaziare sul piano, non si vedono che cime di montagne, e brandelli di cielo; nient'altro. Quando il villaggio vi si presenta alla vista, provate un certo quale sgomento, ed un senso di pietà penosa e profonda v'invade l'animo e stringe il cuore. Per quanto pensiate che, volendo, potreste fermarvici per pochissime ore, o tornarvene prima d'entrarvi, pure vi sentite mancare il fiato, quasi un'afa pesante e grave si sprigioni da quel mucchio di casupole, nere nere, strette, serrate tra loro sotto quel verde intenso dei castagni.
La natura che vi si manifesta in tutta la sua selvaggia fortezza, pare che nasconda mille segreti. Ed è questa natura così nuova e così strana che v'attrae e vi seduce: onde ogni tanto vi sentite come la necessità di contemplarla, di ammirarla, di studiarla minutamente; e vi sedete su tronchi di secolari castagni, che il tempo edace ha vinto ed abbattuto. Là seduti, in dolce estasi, udite e vedete sopra il vostro capo la festa che fanno i passeri, i cardellini, i fringuelli, i merli. Ogni tanto vi passa vicino, guardandovi con occhio bonario, la vaccherella od il "pio bove"; e vi giunge all'orecchio il belato di capre o di pecore, cui risponde l'agnellino, chiedendo soccorso.
Man mano che vi avvicinate al villaggio pertanto v'accorgerete d'accostarvi a luogo abitato da gente attivissima; quando vi ci trovate in mezzo a quegli abituri, di cui taluni sono ricoperti nella parte superiore da una fasciatura di tronchi d'albero, vi convincete di essere fra una popolazione laboriosa ed industriosa quant'altra mai al mondo.
Per quelle stradicciuole umide e mal selciate d'irti sassi, sui prati, sotto i castagni, sulle porte, non vedete donne a pettegolezzare, non uomini a poltrire.
Solo scorgete qualche brigatella di marmocchi, intenti a giuocare, rincorrentisi o arrampicantisi su per le piante; e notate tosto che non sono rumorosi e chiassosi come gli altri bambini.
L'ambiente, come si dice oggi, ha già impresso in quei teneri cuori la sua orma, ha già dato tinta di malinconia, di mestizia, di tristezza al loro carattere. I piccoli arignesi, indistintamente sono belli, paffuti, rosei, robusti, ed hanno i biondi capelli: sono fiorellini delicati che fanno vivissimo contrasto coi luoghi silvestri in mezzo a cui vivono.
Dai ripidi e tortuosi ombrati sentieruzzi vedete scendere ogni tanto uomini curvi sotto enormi pesi di legna o di fieno, che trasportano col gerlo. Ogni casupola, cui rivolgete la vostra attenzione per rumori che n'escono, rumori sordi che si ripetono, si moltiplicano senza posa mai, ha uno, due e perfino tre telai.
Nell'entrare in una di quelle stanzucce anguste, umide, nere, v'aspettate sempre d'udire, quasi a sferzarvi il viso, il canto dei "Tessitori" di E. Heine; e ricordate i noti versi:

Ben stride il telaio, la spola non cessa
Di correr: tessiam con lena indefessa.
Ma in luogo di vedervi innanzi a terribili tessitori che:
..............frementi.
Seduti al telaio, digrignano i denti.
Scorgete una donnicciola seduta al telaio, pallida, smunta, che vi guarda, senza stupore, senza curiosità, cogli occhi dolci, affondati nelle occhiaia, e vi invita ad entrare, continuando il suo lavoro affannosamente, febbrilmente.
  Mi si dice che tessono anche gli uomini. Io però non ne ho visti: credo che l'uomo si dedichi alla tessitura solo nella lunga stagione invernale. Nella buona stagione non lo potrebbe, perché deve attendere alla pastorizia ed alla campagna, alla sua piccolissima porzione di terra, cui fa produrre d'ogni qualità di prodotti che il cielo permette, e quanti più può.
Ma le fatiche maggiori per lui, nella quali affronta grandi pericoli, sono quelle che sopporta per raccogliere fieno ed atterrare legna. Sale nei luoghi più elevati, dove non vanno, non ardiscono andare le capre, che pure hanno agilità quasi al par del camoscio, a segarvi il fieno selvatico od il pattume. Va entro i boschi più folti a tagliarvi piante, nei boschi dove certo le guardie forestali non vanno.

Non appena il bambino si fa giovinetto, è posto al lavoro; sotto al gerlo comincia la sua dura carriera, e sotto quello la finisce. Povere creature, che ai più pesanti lavori sono sottoposti in troppo tenera età! Il corpo loro da un anno all'altro si accascia, si deforma.
La donna si dedica relativamente poco ai lavori dei campi, a quei lavori duri, che in altri luoghi l'uomo, brutalmente, fa sostenere alla sua compagna, per risparmiare se e le sue bestie, le quali costano bei denari.
In Arigna la donna tesse: questa è la professione alla quale è votata appena apre gli occhi alla luce; inizia non appena è giovinetta; nella quale deve durare finché le dura la vita.
Cosicché quei corpicini ben fatti e robusti, che crescerebbero, si svilupperebbero e si modellerebbero graziosamente, in poco immiseriscono, si sfigurano, in modo che la giovine vi pare donna matura, e la donna matura vecchia.
Eppure i loro figliolini quanto sono belli e cari! Chi saprebbe spiegarmi questo strano fenomeno?

L'arignese è uno dei tipi più interessanti dell'uomo laborioso, e quindi dell'uomo sobrio.
Dal solo lavoro della donna una famiglia potrebbe ritrarre tanto da vivere. Col telaio una donna sola fa dei bei metri di tela ogni giorno. La tela delle arignesi è ricercata per tutto. Date loro filo o cotone; vi restituiscono tanta bella tela, benché semplice, cioè, come esse dicono, non operata, ma forte e resistente. Esse sono oneste a tutta prova; sono puntualissime perché attivissime; non si lagnano mai, non sono troppo esigenti e pretensive, né piagnucolone. Con queste rarissime doti potrebbero dall'arte loro ritrarre molto di più che non ritraggano. Ma esse si contentano dell'onesto.
Or bene, in quanti luoghi non accade che, ricavando la donna dal suo lavoro frutto discreto, gli altri membri della famiglia non si curano più che di mangiar e bere, e soprattutto bere? In Arigna ciò non avviene. Tutti della famiglia debbono lavorare. "Chi non vuol faticare non ha diritto di mangiare", ha detto S. Paolo; ed essi questa massima la conoscono e la ubbidiscono, senza che, forse, loro l'abbia mai insegnata il curato. Il lavoro è il solo scopo, il solo fine della loro vita; è per essi la seconda legge santa, (la prima è la divina) che, senza imprecazioni, senza sdegni, ma tenacemente, costantemente, con perseveranza filosofica, osservano.
Non sanno quindi cosa sia il riposo; hanno avversione ed odio all'ozio. E dire che nè il cappellano, né altri avrà mai ripetuto loro il detto di Burton: "essere, cioè l'ozio il miglior capezzale del diavolo!"
Ma queste massime le ha scolpite loro dentro la natura, la quale ha loro appreso "essere l'ozio il padre d'ogni vizio" ed "il tempo essere moneta".
Qualcuno mi vorrà osservare che questa è la vita che conducono quasi tutti gli abitanti della Valtellina. E ciò è in fatto in grande parte vero. Ma se per tutti i montanari la natura dei lavori cui debbono dedicarsi "vita natural durante" è pressoché la stessa, non identico è il modo di occuparvicisi, né uguale la costanza nel perdurarvi.
In Arigna pochi sono i gozzuti, e meno i cretini, quantunque, come ho già detto, le abitaizoni degli arignesi siano tuguri umidi, oscuri, bassi, insomma anti igienici in modo che non saprei persuadermi che entro a quelle tane vivono e prolificano creature umane, se non avessi visto luoghi peggiori, e non avessi pernottato in abituri, dove, in verità, starebbe a disagio il fedele amico di S. Antonio.
Vestono meschinamente, sicché di essi, che fanno tela per migliaia e migliaia di camice, accade quello che del sarto, il quale porta gli abiti stracciati. È proprio vero che chi lavora ha la camicia... lacera, e chi non lavora ne ha due... buone.
Si nutrono di polenta gialla o nera, di patate e di castagne: anzi di quest'ultimo frutto, che si può dire una specialità per Arigna pel modo con cui le si sanno cuocere al forno, fanno un uso tale, che si ritiene doversi attribuire ad esso il fatto che pressoché tutti gli arignesi, in una età relativamente giovine, hanno la bocca sguarnita di denti.
Limitatissima è l'emigrazione degli arignesi, il che prova, non però in modo assoluto, che non sono del tutto malcontenti del loro stato.
Essi infatti sono, oltreché frugali, oltremodo previdenti. Vogliono avere in un canto il gruzzolo; piccolo, modestissimo sì, ma lo vogliono e lo hanno.
- Non si sa mai, mi diceva un vecchiotto, che s'atteggiava a sapiente, non si sa mai, in anni perversi come questi, in anni come questi in cui pare che Dio, e qui si levava la berretta, voglia punire gli uomini dei loro peccati e delle loro cattiverie, a quali carestie potremo essere condannati!
Essi si credono abbandonati da tutti, e se ne vivono volentieri isolati, appartati dal mondo, nel quale non vedono che un grande consumatore di tela. Da questo basso mondo poco o nulla si aspettano o desiderano, perché nulla fin qui, neppure una strada, ha loro dato. Ed è certo questo disperare dell'animo e del soccorso altrui che li stimola a pensare da se ai propri bisogni.
No, non è vero che il mondo civile nulla abbia dato agli arignesi. C'è anche pel villaggio d'Arigna il più legittimo rappresentante della civiltà: l'esattore. Poi loro si è dato una scuola, che non so neppure se sia annuale o semestrale, e quanti scolari conto all'anno, e quali risultati dia; perché non me ne sono occupato, non ho voluto occuparmene. E perché, infatti, avrei dovuto io, che ero lassù come un annoiato delle cure e dei fastidi che, sotto nomi lusinghieri e bugiardi, tormentano e torturano l'uomo della città, dal momento che vi sono ispettori e provveditori appositamente incaricati di ispezionare le scuole delle quali ignorano persino il luogo in cio sorgono?
Certo sarà che la legge sulla istruzione obbligatoria verrà rispettata; ma certo sarà anche che colassù i fanciulli, nella migliore ipotesi, impareranno quel poco che s'insegna nelle scuole elementari inferiori, a patto però di disimparare tutto, poco tempo dopo d'aver abbandonato la scuola.
Fatto si è pertanto che anche in Arigna, come in moltissimi per non dire in tutti comuni rurali e villaggi, i montanari più avveduti, intelligenti, educati, istruiti sono quelli che hanno fatto il militare.

V'ha un bel proverbio toscano che così suona:
"Lavora, com'avessi a campare ognora;
Adora, com'avessi a morire allora".
Or bene, gli arignesi sono la più verace umana espressione di questo profondo detto; ed impersonano l'uomo laborioso e credente, nel senso più esteso della parola.
Anzi in quel villaggio, lo ripeto ancora si lavora troppo; e colassù dove ammirereste una popolazione bella e fortissima, la trovate tale, che, pur non essendo debole e fiacca, ha però le impronte della decadenza.
Come il lavoro è, si può dire, la vita del loro corpo, così la religione cattolica apostolica romana è la vita del loro spirito. Sebbene la loro piccola mente non s'alzi al di sopra della cima del campanile, pure nessuno più di loro prova gioia e sollievo nel credere; nessuno più di loro è fanatico, è superstizioso.
Credono ciecamente perché loro hanno insegnato di ciecamente credere; perché il credere in quel dato modo, con quelle date forme di culto esterno che impressionano ed esaltano, che hanno un fascino irresistibile sul povero ignorante, che loro hanno sempre ugualmente insegnato tutti i cappellani che si sono succeduti in quell'eremo, è l'unico mezzo per salvare l'anima, per godere in eterno nell'altro mondo tanto, quanto s'è sofferto in questo.
Non è quindi a dire quale ascendente ha su loro il prete, che ne è "loro maestro e donno".
Ora in Arigna è cappellano un pretino giovine e buono, che i suoi colleghi rossi e pingui chiamano S. Luigi. Infatti è gracilino, pallido, malaticcio. In compenso però è sempre provvisto d'ottimo vino d'Asti, e suona discretamente la fisarmonica.
Quel modesto e quieto prete, la cui opera sarebbe certo più efficace se coi tempi che corrono avesse maggiore dimestichezza, quando alcuni anni sono giunse in Arigna trovò una chiesuola addirittura indecente. Allora avvertì del pergamo che in più degno tempio dovevano gli arignesi pregare Dio.
In pochissimi anni, credo in dee anni, senza l'aiuto di alcuno, coi loro risparmi, prestando ognuno la propria opera e roba, eressero una chiesa semplice e meno angusta della vecchia, nella quale possono raccogliersi comodamente attorno al loro prete.
Questa è l'opera che più d'ogni altra li ha fatti felici; della quale ne parlano con vero orgoglio.
Perché al buon S. Luigi non viene in mente di predicare dal pergamo che in meno insalubri abituri deve vivere l'uomo?

Degli arignesi ricorderò sempre la vita attivissima e laboriosissima, che può essere efficace ed utile esempio a tanti fannulloni e vagabondi; non meno degli eccellenti castagni cotti al forno, che il buon vino d'Asti del curato aiutò a digerire.


Articolo segnalato da Massimo Romeri, apparso in tre parti su L'Eco della Provincia di Sondrio dell'1, 8 e 15 novembre 1888 (nn. 44-46)


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